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Il mistero del volto leggero di Bice

  |   Cultura

Un giorno d’autunno del 1989 Luciano salì sulla soffitta della villa. Solo i tetti ed i solai erano stati recuperati mentre il resto era ancora completamente distrutto.

 

Si mise ad osservare attentamente una stanza dopo l’altra e tutte le cianfrusaglie che erano state lasciate dalla ditta di trasloco del marchese. Scatole, vecchie pinze, pezzi di legno rotti, ante di armadio distrutte, angolini di cartone, transistor. C’era di tutto e la maggior parte di questa sorta di arnesi era stata ammucchiata in alcuni punti delle varie stanze.

 

Improvvisamente si mise a piovere. Un temporale molto forte si riversò su Meleto mentre il babbo continuava con l’aiuto di una torcia elettrica ad osservare con attenzione oggetto per oggetto. Come d’improvviso spostando sassi e utensili si ritrovò in mano un pezzo di vaso in terracotta. Scrutandolo attentamente capì che quest’ultimo avrebbe dovuto fare parte di un’anfora o di qualcosa del genere molto grande e che probabilmente scavando meglio in quel gruppetto di macerie avrebbe trovato qualcos’altro di relativo a quest’ultima.

 

Si aiutò con entrambe le mani e scavò mentre il rumore della pioggia che batteva incessante sulle tegole del tetto si faceva sempre più forte, come un ticchettio di un orologio che corre all’impazzata. Man mano che ripuliva i pezzi di terracotta invecchiata il vaso riprendeva una forma parziale, ma si capiva che aveva un diametro di almeno trenta centimetri e che doveva essere molto pesante.

 

Neppure un’ora dopo aveva quasi ripreso la sua forma originale. Era alto più o meno settanta centimetri, aveva una forma di calice e su due lati erano stati apposti due manici plasmati sempre in terracotta. Purtroppo però, oltre ad essere ridotto in pessime condizioni, mancava all’appello di quest’ultimo un grande pezzo centrale, senza il quale i vari pezzi non si sarebbero incastrarti vicendevolmente l’uno con l’altro. Una sorta di chiave di volta assolutamente assente di un puzzle affascinante quanto misterioso.

Cosa ci faceva quel vaso in soffitta? Perché era stato distrutto? Perché mancava proprio il pezzo chiave?

 

Domande a cui era impossibile trovare una risposta. Almeno per il momento.

 

Ma il babbo non si dette per vinto. Cercò dovunque. Sotto le travi, sotto altri gruppi di calce e vecchi mattoni, negli antichi mobili, dentro le crepe dei muri. Nulla. Il pezzo mancante non c’era, era scomparso misteriosamente chissà quando e come, il vaso non poteva prendere forma e doveva essere recuperato così com’era. In pezzi.

 

Il nonno la mattina dopo quando il babbo gli mostrò il ritrovamento portò tutto da un amico restauratore per far ripulire ad arte l’oggetto.

 

Intanto passarono i giorni ed il babbo ormai quasi non ci pensava più. Non sarebbe stato mai possibile ritrovare la chiave di volta. Chissà dove era stata nascosta, gettata, murata magari in qualche muro della villa, da qualche parte, in chissà qualche epoca.

Il babbo si era chiesto a che periodo storico appartenesse quel vaso. Fantasticava su anni lontanissimi, magari secoli, ma non si dava pace per il dispiacere del non aver ritrovato l’ultimo pezzo, forse il più importante di tutti gli altri.

 

Una notte di alcuni giorni dopo non riusciva a dormire. La mattina all’alba si sarebbe dovuto svegliare per andare al lavoro all’autostrada e si agitava ancora di più a quel pensiero, dato che sarebbe andato via stanco. Verso le due prese sonno e sognò. Si rivide a Barberino camminare in un’aia verso il cancello di mezzo, che divide la casa padronale dalla prima parte del borgo. Giunto sulla soglia di pietra tra le due colonne, svoltò nella strada che da lì parte in direzione del bosco delle Coste e si avviò in discesa sotto i cipressi maestosi. Sognò sua nonna Attilia, scomparsa nel 1986. Stava seduta su un sasso non lontano da li, sembrava riposarsi.

 

— Luciano guarda da queste parti, il vaso non è lontano da qui —, gli disse con la sua voce pacata.

— Nonna cosa fai? — provò a chiamarla. — Nonna! —, urlò più forte. Fece per incamminarsi verso di lei ma improvvisamente si risvegliò sudato fradicio, senza capire per quanto tempo avesse sognato. Tiziana dormiva profondamente e la luce dell’alba iniziava a filtrare dalle persiane.

 

Si alzò, si lavò, si vestì ed andò al lavoro.

 

Durante la giornata si dimenticò completamente di quel sogno. Ebbe molto da fare e la nonna che gli riferiva quel segreto era ormai dimenticata, fuori dai suoi pensieri. Certi sogni del resto fatti certe notti rimangono in una sorta di ripostiglio della mente e solo di tempo in tempo se ne ritrovano stralci nella realtà, per caso.

 

Quel pomeriggio il babbo tornò da lavoro e si diresse a Barberino. Per caso ripercorse lo stesso tragitto del sogno. All’ora di cena, quando fece per tornare alla macchina, arrivò sulla soglia del cancello e lo chiuse. Nel chiudere il lucchetto improvvisamente il sogno ritornò fra i suoi pensieri. Riapparve la nonna e si ricordò di tutto. Si stropicciò gli occhi, scosse la testa e pensò. — Cosa sta succedendo? —, si domandò a voce alta.

Si voltò all’improvviso e s’incamminò verso la strada delle Coste sotto i cipressi maestosi. Dopo pochi metri vide un cumulo di macerie. Iniziò a scavare certo di poter trovare qualcosa di interessante ma non trovò nulla. Sicuro che aveva avuto un’allucinazione si convinse che non poteva essere vero e che tutto era frutto della fantasia.

 

Si alzò e si incamminò verso la macchina. Dopo due passi rialzò la testa e si voltò di nuovo. Ritornò a guardare le macerie sotto le quali non c’era nulla. Accanto a quest’ultime un altro gruppo di mattoni sembrava essere stato messo li per caso. Li sollevò tutti uno ad uno, fin quando arrivato alla fine, sotto l’ultimo mattone, apparve il pezzo del vaso.

 

Il babbo non credeva ai suoi occhi. Era tutto vero. Il sogno, la nonna, il cancello, il pezzo del vaso.

 

Non era però un pezzo qualunque. Era molto grande e sulla sua superficie era stato scolpito in basso rilievo in terra cotta un dolce volto di donna. Sotto il volto s’intravedeva una firma anche quella scolpita. Il babbo soffiò sulla calce e la polvere e pulì con un dito il punto esatto in cui la scritta si leggeva meno. “Bice Marsichi Lenzi, 1903”. Questa era la firma del volto di donna presente nel vaso. Il babbo sapeva che Bice era stata la proprietaria della tenuta proprio all’inizio del novecento e probabilmente, per lasciare futura memoria del suo passaggio, aveva fatto, come usava in quel tempo, cuocere un vaso di terracotta con il suo volto, la sua firma e l’anno.

 

Era trascorso quasi un secolo e quel vaso rotto dal tempo e chissà quali affanni, dopo un attento lavoro di ripulitura, tornò a respirare.

 

Oggi è uno dei simboli di Barberino, e Bice osserva tutti coloro che arrivano all’entrata del ristorante, silenziosa e piena di mistero, quasi abbia voluto farsi ritrovare dal babbo, dopo aver letto i suoi sogni.